Davide
Tra i volti della Parola che esprimono il mistero della chiamata e della fragilità, si trova certamente quello di Davide. Il grande re che viene descritto dalle diverse tradizioni bibliche secondo accenti e sfumature diverse. Alcune tradizioni tendono a sottolineare la figura di un re che è vissuto e cresciuto tra luci e ombre, con pregi e difetti. Altre fanno di Davide il grande uomo del culto. Colui che ha progettato il tempio e che ha concentrato tutto il culto del Signore a Gerusalemme. Dal salterio (che accomuna la preghiera di tutta la Chiesa attraverso i Salmi) emerge un’altra figura di Davide, quella dell’uomo di preghiera, di colui che eleva a Dio il suo grido, la sua richiesta di perdono, il suo ringraziamento.
Tra queste sfumature, riflettiamo in particolare sul mistero dell’elezione (chiamata) e su quello della debolezza.
Quando si riflette sul mistero dell’elezione di Davide, il pensiero corre subito al capitolo 16 del primo libro di Samuele quando il profeta giunge nella casa di Jesse, che ha radunato tutti i suoi figli perché egli scelga il re che Dio gli indicherà. Quello che è curioso è che in un momento così significativo Davide viene lasciato nei campi a pascolare le greggi del padre. Egli non viene convocato insieme a tutti i suoi fratelli.
La tradizione rabbinica si chiede come mai Davide viene lasciato nei campi in un momento tanto significativo. E rispondendo a questo interrogativo essi sottolineano come di fatto l’elezione di Dio si era posata su Davide molti anni prima dell’arrivo di Samuele. Vale a dire, nel momento stesso della sua nascita e del suo concepimento. Perciò i progetti di Dio vanno molto al di là delle piccole prospettive umane. La chiamata di Dio è un dono che Lui stesso ci ha fatto dall’eternità, si tratta di scorgerla, comprenderla e rispondervi – talvolta smantellando tutte le categorie umane – , questo è il mistero della volontà di Dio di fronte al quale c’è stupore… e anche qualche domanda!
La tradizione rabbinica si chiede come mai Davide viene lasciato nei campi in un momento tanto significativo. E rispondendo a questo interrogativo essi sottolineano come di fatto l’elezione di Dio si era posata su Davide molti anni prima dell’arrivo di Samuele. Vale a dire, nel momento stesso della sua nascita e del suo concepimento. Perciò i progetti di Dio vanno molto al di là delle piccole prospettive umane. La chiamata di Dio è un dono che Lui stesso ci ha fatto dall’eternità, si tratta di scorgerla, comprenderla e rispondervi – talvolta smantellando tutte le categorie umane – , questo è il mistero della volontà di Dio di fronte al quale c’è stupore… e anche qualche domanda!
Riguardo al discorso antropologico sulla fragilità, guardando alla storia sembra che nei secoli l’umanità abbia alternato due atteggiamenti opposti nei confronti del male, della sofferenza e della fragilità: quello del combattimento tragico o della fuga. Anche noi di fronte al dolore e alla sofferenza formuliamo espressioni di questo genere: “Perché mi è successa questa cosa?... Perché quella violenza di cui sono stato vittima?... Perché Dio ha permesso questo? Che male ho fatto?” (come se il dolore fosse la risposta di Dio al nostro peccato!).
Tali espressioni dipendono dal nostro sentirci vasi di creta e dal non accettare di esserlo, coltivando nell’animo la segreta speranza che la fede in Cristo ci possa preservare dal dolore, dalle malattie e sofferenze. Ma la fede non è un’esperienza semplicemente a servizio del nostro personale beneficio psicologico. La fede è testimonianza, è luogo della comunicazione della speranza che rende visibile la possibilità, pur nella nostra povertà, di saper portare la sofferenza alla maniera del Cristo.Ovviamente, non si tratta di sviluppare un patologico orientamento alla sofferenza e all’autodistruzione, ma è questione di scelta di amore che spinge al dono di sé. Allora le domande del “perché” dovrebbero lasciare spazio alle domande intorno al “come”: “Come fare perché questo evento assuma senso?... In che modo posso far diventare significativa, cioè parte di una storia di salvezza, questa sofferenza?... Come passare dal perché al “per chi” posso offrire il mio dolore?”. Solitamente dietro i nostri perché c’è aggressività, c’è ribellione, c’è la fatica di scegliere di assumersi le proprie responsabilità; il “come”, invece, ci fa guardare le cose in maniera dinamica, ci rende protagonisti di senso, costruttori di significati. E qui si colloca il discorso sulla virtù della fortezza.
Tali espressioni dipendono dal nostro sentirci vasi di creta e dal non accettare di esserlo, coltivando nell’animo la segreta speranza che la fede in Cristo ci possa preservare dal dolore, dalle malattie e sofferenze. Ma la fede non è un’esperienza semplicemente a servizio del nostro personale beneficio psicologico. La fede è testimonianza, è luogo della comunicazione della speranza che rende visibile la possibilità, pur nella nostra povertà, di saper portare la sofferenza alla maniera del Cristo.Ovviamente, non si tratta di sviluppare un patologico orientamento alla sofferenza e all’autodistruzione, ma è questione di scelta di amore che spinge al dono di sé. Allora le domande del “perché” dovrebbero lasciare spazio alle domande intorno al “come”: “Come fare perché questo evento assuma senso?... In che modo posso far diventare significativa, cioè parte di una storia di salvezza, questa sofferenza?... Come passare dal perché al “per chi” posso offrire il mio dolore?”. Solitamente dietro i nostri perché c’è aggressività, c’è ribellione, c’è la fatica di scegliere di assumersi le proprie responsabilità; il “come”, invece, ci fa guardare le cose in maniera dinamica, ci rende protagonisti di senso, costruttori di significati. E qui si colloca il discorso sulla virtù della fortezza.
I maestri dello spirito definiscono la fortezza come una virtù che spinge l’uomo che non si fida delle proprie forze a sperare nell’aiuto di Dio. Il fondamento della fortezza è in primo luogo la fiducia in Dio, chi si fida di Dio riconosce i propri limiti ma questi non gli fanno paura, quando invece ci si affida unicamente a se stessi si corre il rischio di rimanere prigionieri delle proprie paure.
Dostoevskij presenta il suo eroe Aljoscia come un ragazzo che “non voleva mai elevarsi sopra i suoi compagni e perciò non temeva nessuno di essi”.
Chi crede alla provvidenza di Dio sa che “tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (Rm 8,28), sa che il Signore c’è e sostiene, non ha paura del male possibile e valorizza il bene che c’è; sa che la preghiera non contraddice il coraggio (In Dio cerco la mia protezione, Sal 10,1), al contrario lo stimola, dà forza nel pronunciare il proprio “eccomi”.
Chi crede alla provvidenza di Dio sa che “tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (Rm 8,28), sa che il Signore c’è e sostiene, non ha paura del male possibile e valorizza il bene che c’è; sa che la preghiera non contraddice il coraggio (In Dio cerco la mia protezione, Sal 10,1), al contrario lo stimola, dà forza nel pronunciare il proprio “eccomi”.